Operai che diventano padroni? Una risposta a "Repubblica"
Dalla Putilov del 1917 alle fabbriche argentine in autogestione al workers buyout con gli operai che diventano manager: un unico percorso lineare? un’evoluzione coraggiosa dello stesso progetto?
Senza voler demonizzare altre esperienze che tentano di resistere alla crisi, è bene fare chiarezza perché c’è del veleno nella coda…
Dalla nostra concreta realtà abbiamo imparato questo: si può sfuggire (o tentare di sfuggire) all’autosfruttamento – che avviene proprio dall’assunzione del cosiddetto rischio d’impresa – da parte di lavoratori e lavoratrici espulsi dal processo produttivo solo se si evita di impegnare tutte le proprie risorse (a cominciare dal tfr, dagli ammortizzatori anticipati e dai propri risparmi) e persino di indebitarsi per anni “per diventare imprenditori”. Cioè solo se ci si rifiuta di fare come suggerisce Repubblica e con lei i bocconiani di governo che vanno per la maggiore…
Prima ti spremono come un limone, poi si mettono in tasca i soldi e ti licenziano, poi invece di darti un reddito sociale ti tagliano anche gli ammortizzatori e ti dicono: arrangiati, se vuoi campare indebitati e fai l’imprenditore! No cari signori, noi non siamo in debito, siamo in credito!
RiMaflow (e almeno anche Officine Zero di Roma) è abusivamente inserita in questo conteggio di “imprese recuperate” fatto dal quotidiano di De Bendetti. Così ce ne sono non 39, ma migliaia e da decenni in Italia (e sono in gran parte affiliate alle grandi centrali cooperative, che inducono a costruirsi come impresa capitalistica, spesso con dinamiche di concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro ed oggi non a caso esprimono il ministro del lavoro di un governo liberista).
Noi, sull’esempio delle iniziative storiche del mutuo soccorso e del controllo operaio e dell’attuale autogestione delle ERT argentine, ci rifacciamo al concetto di riappropriazione sociale dei mezzi di produzione. Ocupar, resistir, producir è tutt’altro che un’utopia fuori dalla storia, come racconta Repubblica. E’ proprio il fallimento delle politiche neoliberiste e la crisi sistemica che stiamo vivendo che ha rimesso all’ordine del giorno le alternative al modo di produzione dominante e anche alle scelte del tipo di produzione da sviluppare. La riconversione da automotive in direzione del riuso e riciclo che abbiamo intrapreso parla di questo.
Capiamo (e sosteniamo) chi lotta contro la chiusura della fabbrica e spera nell’arrivo di un nuovo padrone tentando di non peggiorare le proprie condizioni: è la stessa nostra storia, se ci si riesce, bene.
Capiamo anche chi riesce a rilevare l’azienda e a costituirsi in cooperativa con tanti sacrifici: non possiamo condannare chi ce la fa comunque a salvaguardare qualche posto di lavoro di fronte al dramma della miseria o della disperazione, tanto di cappello!
Ma se prima della chiusura si riesce a impostare la vertenza per riappropriarsi del capitale fisso (edifici e macchinari) e a far ripartire la produzione conservando le risorse proprie e soprattutto ad avviare un percorso di autogestione (sovranità dell’assemblea, uguale retribuzione,…) si intraprende una strada opposta a quella dell’autosfruttamento, alludendo esplicitamente a un’alternativa, non solo di produzione.
Se un padrone vuole delocalizzare e andarsene lo faccia pure, ma lasci qui fabbrica e macchinari in autogestione agli operai: è il primo risarcimento per averli sfruttati e buttati in mezzo a una strada, poi discutiamo!
RiMaflow non è un modello, è una sperimentazione. A oltre un anno ormai dall’inizio dell’occupazione l’attività si sta consolidando, ma non pensiamo di poter diventare un’isola felice. Ci definiamo “Fuorimercato” ma sappiamo di dover combattere contro le leggi del Mercato, e non lo possiamo fare da soli. Per questo abbiamo definito il nostro percorso “autogestione conflittuale”, perché ci sentiamo parte di un conflitto generale per costruire nuove regole economiche e sociali. Non otterremo da soli legislazioni di sostegno per ottenere l’assegnazione delle imprese ai lavoratori che le occupano. Semplicemente non aspettiamo che le leggi lo consentano: cominciamo a farlo per aprire la strada, per noi e per gli altri.
Ecco a Repubblica, che con alcuni suoi esponenti di sinistra guarda alla Grecia per le prossime elezioni europee, diciamo che una strada come quella indicata da questo servizio ci porta in braccio al jobs act di Matteo Renzi e dei padroni e non la condividiamo affatto. Se costoro non si mettono dalla parte della Vio.me autogestita di Salonicco ma giocano sull’ambiguità del lavoro fai da te senza diritti e garanzie noi non li seguiamo.